SPIGOLATURE NATALIZIE
di Giacomo Morandi (Rivergaro)
Frugando
nella memoria, ormai un po’ stanca, mi sfilano di fronte ricordi
anch’essi molto sbiaditi di Natali vissuti qua e là, da bambino
e da adulto, per lo più felici, devo ammetterlo, anche in
periodi bui della guerra o in occasione di tristi vicende
familiari.
Nella mia famiglia, per noi bambini, il Natale non era occasione
di regali perché questi arrivavano una decina di giorni prima,
il 13 dicembre per Santa Lucia, usanza questa diffusa nella mia
città e nelle province vicine. A Natale, sull’immancabile
presepio, trovavamo cioccolatini, torroni, altri dolciumi e,
chissà perché, un cestino di mandarini, ma i giocattoli li
portava Santa Lucia, anche se il segreto della sua venuta io lo
avevo scoperto e rivelato alle mie sorelle già all’età di cinque
anni. In uno stanzino c’era un vecchio armadio, la chiave del
quale non era nascosta a sufficienza per impedirmi di scovarla.
Alla messa di mezzanotte mia madre non sarebbe mai voluta
mancare e farla perdere a noi, che del resto apprezzavamo
l’eccezione notturna al letto alle 21. Mio padre ne era invece
esentato, come anche dalla messa domenicale e dalle altre
cerimonie religiose nel corso dell’anno, per un tacito accordo
con mia madre.
Ovviamente, la sera della Vigilia si cenava “di magro” per fare
penitenza, diceva la mamma, ma sulla tavola non mancavano piatti
abbastanza sontuosi come i tortelli di ricotta (magri), le
sogliole di Dover o lo storione con insalata russa e, per
terminare, una tazza di zabaglione.
Il giorno di Natale il pranzo, preparato tutto in casa da mia
madre, prevedeva antipasti di salumi, il capitone, anolini in
brodo di cappone, tacchino arrosto, cappone lessato con mostarda
di frutta, panettone Motta, frutta secca assortita. Dopo, per
mio padre soltanto, un grappino. Alle 11 del mattino si andava
alla messa grande. Mio padre aspettava fuori e partecipava ai
convenevoli di rito del dopo messa sul sagrato, e durante la
movida (ma allora non si chiamava così) si fermava al Bar Italia
per una mezz’ora di imprudenti (secondo mia madre) discussioni
politiche con gli amici.
Poi venne la guerra e gradualmente si strinse la cinghia e i
pranzi si impoverirono drasticamente.
Ricordo il Natale del 1944, quando mio padre era fuggitivo sui
monti del piacentino, ricercato dalle milizie di Salò e da oltre
un mese non ne avevamo notizie, io rientrato a casa dopo
avventure sui monti con lui e una lunga camminata notturna nei
boschi. Mia madre aveva rimediato un pasto “rubando” da un carro
tedesco, parcheggiato sotto un nostro porticato, un paio di
pagnotte di segale che sembravano mattoni ed era riuscita a
ritagliare una bella fetta di carne da un quarto di manzo sul
medesimo carro e, da un litro di panna fresca ottenuta a caro
prezzo dai contadini, una tazzona di panna montata.
In casa i tedeschi ci avevano requisito un paio di stanze per
alloggiare uno scorbutico capitano e due poveracci “mongoli” (in
effetti si trattava di un ucraino e di un turchestano recliutati
dai campi di prigionia, che avevano partecipato al terribile
rastrellamento antipartigiano del mese prima). I due mongoli,
parteciparono al nostro magro pranzo ma rifiutarono la panna
montata.
Finita la guerra, i nostri Natali ritornarono gradatamente alla
normalità. I giocattoli ormai li snobbavamo e non c’erano molte
alternative per i regali di Santa Lucia, ma la tradizione dei
dolciumi continuò per qualche anno.
Il primo Natale all’estero lo trascorremmo a Londra, con i
Christmas Carols in Trafalgar Square e la messa in inglese
nell’unica chiesa cattolica della nostra cittadina che si
chiamava Welwyn Garden City. Era una povera chiesa e anche il
parroco, un irlandese, faceva vita grama, ma il Natale era una
festa molto sentita, di massa.
Idem a New York e a Toronto, dove le chiese cattoliche erano più
numerose e ricche. La nostra parrocchia di Toronto era San
Gabriele, retta dai Fratelli Passionisti, una congregazione
piuttosto ribelle e malvista dal clero della città per
l’orientamento riformista. Fedeli in fila per la comunione,
assoluzione collettiva e barzellette durante l’omelìa del
Vangelo. La voglia sfrenata dei regali, spesso inutili, avrebbe
contagiato l’Italia solo più tardi, ma in quei paesi lo scambio
avviene tuttora fra i parenti, gli amici, i conoscenti, i
colleghi di lavoro. Un rito.
Un paio di festività natalizie le trascorremmo con brevi vacanze
in Florida e alle Bahamas, sulle spiagge con le palme al posto
degli abeti. Anche l’albero in salotto era una palma. A Parigi
nulla da segnalare. Tutto identico all’Italia.
Un’ultima osservazione: ai tempi della mia infanzia e gioventù
non c’era Babbo Natale, creatura nordica ed esotica. Mi metto
nei panni dei bambini di oggi che vedono, un po’ perplessi,
tanti Babbi Natale schierati agli ingressi dei supermercati.
Mah!
|