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le news di aprile 2017

 

Il medico o della speranza - da "Tiramisù - Ossia l'incontenibile desiderio"
di Lorenzo Milanesi (Milano)

L’autunno, con l’avvio di tutte le attività, trascorse rapido, consegnandosi senza turbolenze eccessive ad un inverno promettente che poi invece cambiò di umore e divenne crudo come non accadeva da diversi anni.
Sempre più crudo, col passare del tempo, si rivelò pure il carcere per Filippo.
Sua madre, complicata com’era, ma forse proprio per questo, non resse alla notizia dell’arresto del figlio e, di lì a poco, una sincope le fece perdere la parola e la costrinse su una carrozzella, preservandole le altre facoltà.
In queste condizioni di salute e di spirito si rese finalmente conto di quanto ognuno di noi possa aver bisogno del prossimo e, a suo modo, rinsavì.
La sciagura abbattutasi nella casa del medico era ora completa. Egli ne fece cenno a Pertinace quel tal giorno - uno degli ultimi della bella stagione - nel quale questi, in compagnia di Pietro, si stava recando al bosco dei castagni.
Pertinace, come si sa, ricavò in tale circostanza l’impressione che qualcosa stesse per mutare in quella casa, ma la tenne per sé insieme con le confessioni ricevute dal medico.
Fu nell’affrontare le enormi difficoltà, che si presentarono dopo l’arresto del figlio e la disgrazia accaduta alla moglie, che si manifestò e rifulse, nella stessa persona, la figura e la statura del medico, del padre e del marito.
Nella situazione in cui egli si venne a trovare non potè risolvere un problema alla volta, perché tutti premevano e imponevano decisioni urgenti e provvedimenti adeguati. 
Quanto alla moglie, non si accontentò della propria diagnosi, che poi si rivelò esatta, ma fece venire a consulto due specialisti della città che approfondirono le analisi e concordarono con le sue risultanze.
Fece quindi attrezzare di tutto punto una camera ben esposta, nella quale la moglie potesse trovarsi - si fa per dire - a suo agio e non incontrasse eccessive difficoltà negli spostamenti con la carrozzella. La educò all’uso del mezzo con l’aiuto anche di un fedele servitore che, per ironia della sorte, ella aveva maltrattato forse più degli altri. E questi, pur memore delle offese, ora che la persecutrice era impotente e indifesa e implorava il perdono con gli occhi lucidi, non ebbe il cuore di ritrarsi, si adoperò anzi con tutte le forze per alleviarle la pena del vivere.
Per le cure specifiche il medico ordinò che ad ora stabilita, e con pagamento supplementare, si occupasse la sua stessa infermiera.
Dall’inizio della malattia in avanti volle anche che fosse ripristinata la consuetudine di consumare i pasti insieme, come ormai da tempo non avveniva più. E ne approfittava per colmarla di attenzioni, fino a imboccarla quando si sentiva più stanca del solito, fino a leggerle le notizie dei giornali, fino a gratificarla di un sorriso anche quando la tristezza gli attanagliava la gola.
L’idea di potersi vendicare delle inenarrabili umiliazioni sofferte non lo sfiorò minimamente, anzi in cuor suo pensò che la tremenda malattia fosse un prezzo troppo elevato per la condotta, pur grave, tenuta dalla moglie negli anni trascorsi.
E d’altra parte, gli sguardi ora riconoscenti di lei e le crisi di pianto che sempre più di frequente l’assalivano, si accordavano misteriosamente con il desiderio lungamente represso di volerla aiutare a uscire dal tunnel dei conflitti interiori che tanto male avevano procurato alla famiglia intera e a sé stessa. Ora se ne presentò l’indesiderata occasione ed egli vi profondeva le ringiovanite risorse fisiche e spirituali.
Di pari passo con le premurose attenzioni verso la moglie sofferente, il cuore di questo medico si aprì nei riguardi di un’altra creatura altrettanto bisognevole di soccorso.
Era la ragazza messa alla porta dai genitori perché rimasta incinta da suo figlio, ora in carcere. 
Appena ne ebbe notizia, non si diede pace finché non le fece pervenire dagli zii, dove s’era rifugiata, un suo garbato biglietto di comprensione e il suo pressante invito a venire a starsene in casa di Filippo che, in questo modo - le diceva per convincerla del tutto - poteva essere aiutato meglio nella battaglia legale che stava conducendo in favore di quello.
La ragazza venne, timorosa e guardinga, e il medico l’accolse come gli suggeriva il cuore straripante di umanità e di sollecitudine per i casi difficili. Poche furono le parole che le disse, ma bastarono perché gli s’aggrappasse al collo e scoppiasse in un pianto dirotto.
Ora il medico aveva anche una figlia che di lì a poco gli avrebbe regalato un nipotino, e l’idea di diventare nonno, lungi dal turbarlo, lo rese oltremodo felice e ne rafforzò la determinazione a proseguire negli sforzi. Le diede un bacio sulla fronte e l’accompagnò dalla moglie.
Stranamente, questa non pianse per esprimere i suoi sentimenti e la sua partecipazione come accadeva altre volte. Stette a guardarla intensamente, le fece un cenno perché si avvicinasse, le prese una mano, la strinse fra le sue e poi la baciò teneramente.
Questo fu il primo incontro con i genitori di Filippo. Il medico le fece preparare una stanza con il bagno accanto, la colmò di premure e si incaricò di farla visitare periodicamente da un ginecologo.
Ma badò anche che le attenzioni per la nuova venuta non privassero la moglie neppure di un minuto del tempo che abitualmente era solito dedicarle.
Non era cosa facile, con tutte le altre faccende a cui doveva badare, ma la sua volontà era smisurata, pari soltanto alla sua nobiltà d’animo. Grazie alla quale potè risolvere le impreviste complicazioni sorte con la famiglia della ragazza che lo minacciò perfino di denuncia per sequestro di persona. Per la verità, bisogna anche aggiungere che in questa delicata circostanza si avvalse dei buoni uffici del parroco, che seppe svolgere il suo compito di mediatore e di paciere con la consumata abilità che la difficoltà e la complessità del caso richiesero. Così la ragazza potè rimanere in casa dove i suoi familiari poterono recarsi a visitarla senza tante formalità.
Il chiodo fisso del medico era però uno solo: fare in modo che suo figlio potesse tornare libero prima del lieto evento. Dopo l’arresto, egli andava a trovarlo in carcere tutte le volte che i giudici lo consentivano. Così ebbe modo di conoscere e farsi conoscere dal figlio, come ad entrambi non era stato possibile prima.
Era ancora un ragazzo, si può dire. Un ragazzo sfortunato, segnato dalla sofferenza, che la permanenza nel carcere poteva rendere irrecuperabile.
Fortunatamente, dopo i primi interrogatori, i giudici furono più morbidi nel concedere i permessi di visita e così l’opera del padre si dispiegò in tante direzioni. Chiese e ottenne che il figlio potesse restarsene in una cella singola, senza contatto con i comuni malfattori; gli procurò, con le debite autorizzazioni s’intende, una radio, libri, giornali, carta, per il caso che volesse scrivere, pastelli per dipingere e quant’altro potesse fargli passare la giornata senza avvilirsi più del necessario; venne di tanto in tanto in compagnia anche della ragazza, dimostrandogli, ancora una volta, la sua comprensione e infondendogli tranquillità per il futuro dell’erede.
Ma soprattutto affidò il caso a un avvocato di grido, un luminare del diritto, senza badare a spese, ma facendogli chiaramente intendere che la ragazza avrebbe partorito entro 70 giorni, massimo 75, e che quindi doveva darsi da fare.
Con Filippo poi, specialmente quando andava a trovarlo da solo, fece appello alle sue più preziose risorse di cuore, di mente e di parola per penetrare nella linea di difesa costruita, nel corso di tutti gli anni passati, con la complicità sconsiderata della madre.
Non fu un lavoro da poco. Quando finalmente il processo venne celebrato e i giudici si convinsero che ben poco aveva a che fare il reato commesso con la vera personalità dell’imputato e lo condannarono a una lieve pena detentiva, peraltro già scontata, derubricando - come si dice in gergo forense - il reato, Filippo cominciò a diventare uomo. Non si sa se lo sarebbe diventato del tutto, ma cominciò.
La nascita del nipotino in casa propria segnò il culmine degli sforzi compiuti dal medico prima di accingersi alle pratiche e alle procedure per regolarizzare in chiesa l’unione dei due giovani.
Il parto avvenne intorno alle 10 del mattino, dopo che le doglie erano incominciate a tarda notte. C’era in casa un andirivieni quasi concitato della servitù. Filippo non nascondeva il suo nervosismo e così pure i genitori della ragazza. Sua madre non si riusciva a capire cosa esattamente pensasse: stava rivolta con lo sguardo fisso sul pavimento e le sue labbra avevano piccoli fremiti, come se pregasse. Non si sa.
Il medico non volle assistere al parto e se ne stette nello studio aspettando con calma che le cose andassero per il loro verso.
Quando il piccolo nacque e cessarono le urla di dolore della partoriente, vi fu uno scoppio di gioia generale.
La tensione si allentò e Filippo corse dal padre che già stava uscendo dallo studio.
Vedendolo dirigersi verso la stanza del parto gli chiese: “Posso entrare anch’io?”. “No, ora no. Aspettami fuori un momento” gli rispose e s’infilò richiudendo la porta.
Quando ricomparve, era trascorso più d’un quarto d’ora, aveva il piccolo fra le mani: una creaturina arrossata, con un ciuffetto di capelli scuri, una fascia bianca che avvolgeva il ventre dividendo il corpicino a metà e i braccìni che si agitavano in sintonia con il pianto breve e lacerante.
Filippo guardò il figlio ma non fece sul momento grandi meraviglie. Si diresse verso la ragazza pallidissima ma felice, con la quale si trattenne fin quando l’ostetrico e l’infermiera non l’invitarono a uscire.
Tornò nella sala che suo padre stava porgendo il bimbo piangente a sua moglie perché lo vedesse bene e lo toccasse e lo baciasse. E così fece con i genitori della ragazza e con la servitù presente.
Quando vide Filippo, il medico gli andò incontro e appena gli fu vicino sollevò in alto il piccolo con entrambe le braccia e disse al figlio: “Ora incominciamo da questo... da questo” e glielo consegnò dolcemente.
Si diresse quindi verso la moglie raggomitolata nella carrozzella, ne accarezzò col dorso della mano la guancia rosea, accostò una poltrona e vi si abbandonò traendo un profondo sospiro. 
Passò l’inverno e il clima si andava raddolcendo. Il nipotino del medico cresceva vispo e in ottima salute. La nonna cedette al male appena dopo la fine dell’anno e ai suoi funerali partecipò, più per la stima verso il marito che per spontaneo sentimento di cordoglio, l’intero paese, con il sindaco e lo stendardo del comune in testa al corteo.
Al cimitero, dopo l’inumazione della salma, quando il parroco si avvicinò per rinnovare le condoglianze, il medico chiese quando avrebbe potuto parlargli a quattr’occhi.
“Ora non scomodatevi; uno dei prossimi giorni. Verrò io stesso a casa vostra” gli disse il parroco allontanandosi verso la chiesa con i due chierichetti e il sacrestano ritto, col solito passo marziale, come se avesse inghiottito un palo telegrafico o si predisponesse a farlo con la croce nuda che reggeva a braccia sollevate.
Due giorni dopo il parroco bussò alla porta del medico.
“Accomodatevi reverendo” gli disse questi davanti all’ingresso.
Si diressero nello studio dove, accanto a un lettino per le visite, ricoperto da un candido lenzuolo, e a un armadietto a vetri entro il quale erano custoditi lo stetoscopio, il termometro, qualche siringa, un laccio emostatico e tanti medicinali in omaggio, campeggiava - separata da un elegante paravento Thonet rifinito dello stesso broccato che tappezzava le pareti - un’austera scrivania in radica di foggia antichissima, sulla quale era poggiata una lampada di vetro verde col fusto in ottone lucido, il ricettario e un servizio di calamai e penna in argento.
Alle spalle, sulla parete, un ritratto a olio di fattura raffinata riproduceva il padre di scorcio, vestito in nero su uno sfondo perlaceo, lo sguardo lontano e la mano sinistra introdotta nel taschino del panciotto nell’atto di estrarre o riporre l’orologio, trattenuto da una vistosa catena d’oro che ornava la rotondità dell’addome.
Alle pareti, scaffali della medesima qualità del legno della scrivania, ricolmi di libri e riviste mediche.
Ebbero il tempo di sedersi l’uno di fronte all’altro che un domestico aprì la porta e chiese al medico se doveva servire qual
cosa.
“Sì, si, porta... cosa desiderate, reverendo?” disse il medico.
“Nulla, grazie, preferisco stare così” rispose il parroco.
“E troppo poco” incalzò il medico. “Vi faccio assaggiare, se permettete, il mio vino cotto”.
“Va bene, grazie, mi arrendo alle vostre raffinatezze” assentì il parroco deglutendo.
Il domestico tornò di lì a poco, versò nei calici due dita di vino cotto da una bottiglia di cristallo e si allontanò.
“Salute!” disse il medico sollevando il bicchiere.
“Alla vostra” rispose il parroco emulandone il gesto.
“Ne ho bisogno” fece il medico passandosi la lingua fra le labbra.
“Ottimo” continuò il parroco “Del resto, come farebbe, nella posizione in cui si trova, la vostra vigna a non produrre quell’uva straordinaria che tanti vi invidiano?”.
“Ho bisogno del vostro aiuto” tagliò corto il medico.
Il parroco si fece serio ma non rispose che allargando le braccia come per dire “Sono qua”.
“Dobbiamo sistemare due cose importanti. Una è il matrimonio di mio figlio con quella ragazza da cui ha avuto il bambino e l’altra è il battesimo di questa creatura” proseguì d’un fiato il medico.
Il parroco, che aveva temuto chissà quali complicazioni dalle “cose importanti” preannunciate dall’altro, si rassicurò e credette di rassicurare anche il medico: “Rientra nei nostri doveri pastorali ed è motivo di grande gioia celebrare un sacramento”.
“Se poi sono due in una volta sola, la felicità è più che doppia. Basta fissare la data e tutto sarà fatto come Dio vuole”.
“Non è tanto semplice come pensate” disse il medico “Ho dovuto vincere non pochi ostacoli per riuscire a persuadere gli interessati, che sono più di due - come potete ben immaginare - ma l’ultimo appare insuperabile. Insomma, la cerimonia non deve essere celebrata in paese e non deve intervenire alcun altro al di fuori dei parenti stretti”.
Si guardarono per un istante, poi il parroco piegò il capo in avanti, portò la mano destra alla fronte, socchiuse gli occhi e poggiò il gomito sul palmo della mano sinistra adagiata sul ventre.
Fece, insomma l’atto di chi ha necessità del buio per ottenere il massimo della concentrazione.
Il medico, in attesa del responso, tamburellava le dita di entrambe le mani sulla scrivania.
Dal fondo del corridoio giungevano, mitigati dalle morbide tappezzerie, gli strilli nervosi eppure allegri del nipotino, al quale sua madre si apprestava a dar<a il latte. Per il resto era silenzio.
“Mi costa molto” disse il parroco rialzando il capo “dover rinunciare alla celebrazione, ma capisco che i sacramenti sono cose ben più importanti della vanagloria personale”.
“Capisco anche il desiderio della riservatezza ma, ripeto, la pace con il Signore è preminente. Facciamo così: io ne parlerò al curato di Guardafui e fisserò con lui il giorno e l’ora. Poi vi farò sapere e mi direte se sta bene”.
Non vi furono intralci e, di lì a venti giorni, matrimonio e battesimo vennero celebrati nella pieve di Guardafui alle prime luci dell’alba.
Più che una festa, sembrò una riunione di congiurati, tanto basso fu il bisbiglio dei presenti, tanto sommesso il tintinnio della campanella del chierichetto, tanto profondo il sonno del bambino, tanto alto il silenzio del campanile.
In effetti, però, si stava voltando pagina di un capitolo tremendo nella vita della famiglia del medico e l’atmosfera che regnò sulla cerimonia sembrò forse la più confacente.

 

Lorenzo Milanesi (Milano)
 

 

 

 

 

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